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Gli ultimi 50 anni

La Guerra del Golfo (1990-1991)

La guerra del Golfo, detta anche prima guerra del Golfo in relazione alla cosiddetta seconda guerra del Golfo, è il conflitto che oppose l’Iraq ad una coalizione composta da 35 stati formatasi sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti, che si proponeva di restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait, dopo che questo era stato invaso dall’Iraq.

Da “Desert Storm” a “Desert Fox”: le guerre degli Stati Uniti e dei loro alleati contro Saddam Hussein. Oltre dieci anni, tra 1991 e 2003, in cui si intrecciano fine della Guerra Fredda e divisioni del mondo islamico, attentato alle Torri Gemelle e nuovi scenari di guerra “globale”.

Il professore Giorgio Del Zanna analizza questo periodo dal 1990, quando Saddam Hussein lancia l’Iraq – ancora provato dalla guerra con l’Iran, terminata due anni prima – alla conquista del Kuwait.

Per gli Stati Uniti di George Bush è troppo. Il conflitto è inevitabile. Contro Saddam si coalizzano una trentina di Paesi. In un paio di mesi piegano il dittatore che, però, viene lasciato al proprio posto.

 

Al di là degli aspetti politici e militari è una guerra che diventa “evento” mediatico: “La prima guerra in diretta – dice Del Zanna – è la Guerra del Golfo, e la Cnn è l’unica che poteva trasmettere in modo libero perché aveva affittato un satellite: abbiamo un guerra dalla terrazza di un hotel”.

Nel 2003 le cose cambiano molto. Dopo il mandato democratico di Clinton, dopo lo choc dell’11 settembre, è il repubblicano George Bush junior a dichiarare guerra a quello che definisce l’“Asse del male”, di cui anche Saddam Hussein fa parte.

Per il dittatore è la fine. Ma l’Iraq, a molti anni dalla fine della guerra, è tutt’altro che pacificato. “La scelta americana di far cadere Saddam è tutta collegata all’11 settembre? È molto forte – conclude Del Zanna – l’idea che bisognasse cambiare gli assi di potere del Medio Oriente e che bisognasse democratizzare. Il grande argomento sarà quello di esportare la democrazia in Iraq creando un effetto domino sui paesi di quell’area. Un obiettivo che però non tiene conto della complessità della realtà irachena, soprattutto delle numerose componenti etniche e religiose”.

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